1467

La battaglia della riccardina


Il capitano aveva già chiare le sorti dello scontro: lo stratega no, non confonde la ritirata con la vittoria, e non la vittoria con la disfatta; però quest’ultima, a volte, è tanto promiscua alla gloria da confonderci tutti e da metter in imbarazzo perfino la storia. Certo che il primo passo per essere un eroe è sempre quello: la ferita sulla coscia. E lui, il Colleoni, nel contemplare il campo della morte, si compiaceva del sangue rossiccio che gli tingeva lo stinco; il male per gli eroi è poco più che un dettaglio.

I libri bollano quella battaglia con una dicitura strana: “ebbe esito incerto” dicono, ma non sanno che nel cuore geniale e perverso di un eroe si covava il trionfo. Al grande Bartolomeo Colleoni nulla importavano le mille carcasse di cavalli stramazzati nella polve, nulla importava dei veneziani pei quali si batteva, e nulla gli importava di quel duca estense che rimase colpito; no, a lui premeva soltanto una cosa: il suo gioiello. Mentre il carro lo trasportava al campo di cura, Bartolomeo si guardava la gamba e sorrideva. Non pensava che a quell’invenzione. E al chirurgo che lo visitava scuotendo il capo, lui non ripeteva che questo “Io Bartolomeo Colleoni ho rivoluzionato il modo di fare la guerra”. Fu in quella battaglia infatti, per chi non lo sapesse, che sfilarono sui campi i primi rudimentali carrarmati. L’idea era stata proprio la sua: fissare spingarde e colubrine su un affusto per avere più prontezza di tiro e più slancio fra i cavalli.
E nella notte sognò ancora quell’invenzione e poi vide i libri di storia col suo nome. La febbre sul suo corpo saliva a vista d’occhio. E infatti al mattino, quando il chirurgo andò per la visita e lo vide in pessime condizioni, gli ordinò di rimandare il rimpatrio. Lui, che gli ordini non li voleva prendere nemmeno dai sovrani, si tirò su e disse: “Io non resto qui perché lo dite voi; ma resto perché l’aria di valle curami la pelle”. E così l’eroe fu condotto al confine, nei pressi della dizione ferrarese. Quivi era un campo allestito per i soldati ed una torretta sul fianco del Canalazzo. E il condottiero vi rimase di buongrado vedendo migliorare di giorno in giorno il suo taglio; e fu talmente sorpreso e felice che donò una moneta rara al buon Araldo, il responsabile dell’avamposto. Ma quello era il mese di luglio e nell’umide interminabili sere brulicavano annuvolate a migliaia le zanzare; e la malaria era a un tiro di schioppo.
1522

La spedizione dell'ariosto


«Il pellegrino nostro, incontentabile spirto, la via, l’imprese, la virtute io canto, e ’l fato avverso e l’erte insidie, i regni antichi e i boschi consacrati, e l’aspre fiere, i campi i guadi i passi; sul limitare candido del verno, quei luoghi vaghi, come trasognati ritornano al pensier mio, e ritornano fate e castelli, lune tremolanti d’un ciel straniero, l’acque alte e sonanti tra i sassi e i crini dei verdi Appennini». Scrisse questi endecasillabi il buon Ludovico in un giorno di bruma. Era appena rientrato nell’adorata Ferrara, la nobile cittade che Alfonso allora innalzava agli onori della storia. Giungeva tutto trafelato da un lungo viaggio del quale voleva narrare, come scrisse, “l’erte insidie” e “il fato avverso”: aveva attraversato gli Appennini in gran segreto, lui solo, cavalcando veloce come il vento; ed era partito qualche giorno prima dalla Garfagnana, la tumultuosa provincia di cui, per volere del Duca in persona, era divenuto sommo governatore; ma poi, anziché valicare i monti nella direzione più logica, quella del Frignano, aveva deciso di deviare verso Firenze. Sapete perché? Ma dai! Non poteva negarlo, aveva deviato con galoppo forsennato per poter rivedere la nobildonna Alessandra Benucci, sua amata segreta... E fino a Firenze tutto filò liscio; quindi, rapito dal potente impulso di Amore, trascorse ben due notti in compagnia della sua cara Alessandra, alloggiando in un grazioso podere fiesolano che dominava su tutta la piana. Si era smarrito, il povero Ludovico, nei grandi occhi marroni di lei, e non trovava più la forza di riprendere il cammino: si era smarrito nelle rime che le dedicava, nelle promesse eterne che proferiva e nelle metafore, udite udite, nelle metafore più belle che mai conobbe la volgar lingua! Ma il risultato fu, a conti fatti, un grave ritardo sulla tabella di marcia. E Ludovico sapeva bene che il Duca lo attendeva in Ferrara prima del Santo Natale; era una scadenza improcrastinabile: in gioco c’era la sua stessa carriera politica. Non poteva assolutamente tardare. Eppure, come avrebbe potuto ignorare l’immensità che s’apriva negli occhi di Alessandra? Come poteva essere più fedele al suo signore? No! Il suo vero padrone era Amore! Da Firenze in poi quel viaggio fu talmente straordinario che ora, appena rientrato nelle sue stanze, Ludovico vuole dare subito alla memoria un picciol corpo sulle carte. Ha acceso un lume e a lungo medita fissando la finestra che dà sul chiostro: laggiù i fanciulli giocano con la neve, corrono e gridano; un ramo del melograno si è spezzato e con esso, fingendosi cavalliero e protettore d’una dama, il più robusto di quei ragazzi si fa largo tra le colonne; gli altri scappano, si nascondono, implorano pietà al suo braccio guerresco. Ludovico freme, battendo sovente i tacchi sul pavimento: per buttar giù quelle quattro memorie e quelle arcane fantasie, si lancia a capofitto nella rozza sequenza dell’endecasillabo sciolto, una forma di prosa che da tempo meditava, ma che il pudore non gli faceva rivelare ad alcuno, nemmeno al caro Pietro Bembo. Certo, non aveva quel racconto le pretese del suo famoso Orlando! Ma vuole ugualmente principiare con quello sdrucciolo che or ora vi ho trascritto; e poi prosegue, dopo quella sorta di proemio sghembo, con le prime tappe del viaggio: Lucca Pistoia Fiesole; e si dilunga, neanche c’è bisogno di dirlo, sulle dolci cause della deviazione, anzi, sulla necessità di quel tragitto: stringendosi il petto spesso con le mani fredde e mirando di tanto in tanto i fanciulli mulinare attorno al melograno, prende così il largo nel mare profondo dell’ingegno. Si sofferma alquanto nella descrizione dell’ultimo tramonto che aveva guardato in compagnia di Alessandra e nella descrizione dei pegni che si erano scambiati: lui le aveva lasciato uno splendido carme, lei un anello d’oro con le sue iniziali. Poi, sospirando, il poeta partì alla volta delle montagne. Ecco allora che Ludovico si alza dalla sua scrivania, prende in mano il vetusto calamaio e lo osserva in controluce: nell’ondeggiare di quel nero mare rivede il passo tempestoso della Futa, il suo cavallo stramazzato in tre metri di neve, il suo mantello lacerato dagli abeti; rivede tutte le persone che ha incontrato, i luoghi che si è lasciato alle spalle, i monasteri in cui ha pregato. Sì, non lo sapevate? Il poeta vede dei mondi nella massa informe dell’inchiostro, dei mondi potenziali, proprio come lo scultore li scorge nel blocco vergine di marmo. E così, passo dopo passo, Ludovico vede le orme del suo viaggio arrestarsi davanti ad una Torre. La Torre che oggi chiamiamo “delle Biscie”. Vi giunse esausto. Vi giunse sudato e gelato a un tempo, con le mani tremanti e gli stivali a pezzi. Sapeva di essere ormai prossimo a Ferrara e sapeva che poteva concedersi finalmente una sosta. Dalle alte fenditure a tutto sesto della Torre, due sentinelle, sporgendosi, chiesero: “Chi è là?” e Ludovico, uomo a cui la favella non mancò mai per tutta la vita, rispose con gran voce: “Messer Ludovico Ariosto, Governatore della Garfagnana per Sua Signoria il Duca Alfonso d’Este!” Il cancello fu aperto e Ludovico poté entrare nel Palazzo. Appena fu nel cortile del pozzo, gli venne incontro il capitano dell’avamposto, Giovanni Araldo. Sì, proprio lui, il figlio di quell’Araldo che accolse Capitan Colleoni cinquantacinque anni prima. Il vecchio Giovanni subito lo riconobbe e gli offrì quanto aveva a disposizione. Ovviamente quel luogo era soltanto un presidio militare e non c’erano poi molti agi per gli ospiti illustri; ma ciò che il capitano fece trovare a Ludovico nella calda tavernetta degli ufficiali fu certamente di suo gradimento: davanti al focolare stavano due scranni comacchiesi con morbidi cuscini, un lume soffuso, un panno di velours, uno spiedo con tre anatre. Ludovico e il capitano si trattennero un poco in chiacchiere, e poi il poeta fu lasciato solo per riposare. «In quel Palazzo Amor io ebbi in sogno, Amor che su un tramonto fiorentino immenso si posò: Amore danzava attorno al pozzo, Amore sulle scale, Amore fra i cavalli, sulle mura e sui coppi del forno e della Torre! Amor non perdonava che l’anello tuo, o nobile Alessandra, in quel luogo io, maledetto, avevo ahimè perduto» Questo scrive Ludovico ripensando alla notte trascorsa accanto all’assiduo cigolio del mulino, o d’la mulinela, come avrebbero detto le guardie. Come lo aveva perduto l’anello? Nessuno mai lo seppe. E al mattino, quando il capitano entrò nella sala per dargli il buongiorno, lo trovò intento ad incidere queste parole sul muro: PIGNUS AMORIS MICHI DERIPUIT MU Ovviamente l’Araldo fu lusingato all’idea di possedere sul muro del suo stanzino un distico del grande poeta e così lo lasciò terminare. PIGNUS AMORIS MICHI DERIPUIT MULINELA: OMNIA FERT AETAS, ANIMUM QUOQUE
1589

L'interminabile giorno di caccia


Si stava alzando la nebbia. Era un miracolo: nessuno più se lo aspettava. I rampolli dei Malvezzi Campeggi l’avevano già data per persa quella giornata: “è nata male...” si ripetevano l’un l’altro, “...quest’oggi non vedremo il becco di un’anatra”. E invece no, adesso si poteva iniziare a percorrere il folto bosco in lungo e in largo; si potevano togliere i cappucci di cuoio ai falchi e si potevano setacciare gli isolotti della palude livida con i fedeli segugi. “Ci vediamo stasera...” disse Ubaldo “...ci vediamo verso il tramonto qui alla Torre. Mi raccomando, bada a te stesso” “D’accordo...” rispose Giordano, il fratello minore, “...non ti preoccupare, non mancherò”. Ubaldo era il più anziano dei due: era un esperto falconiere, uno che ormai le aveva viste proprio tutte; uno che, a dirla tutta, aveva accettato di cacciare alla Selva soltanto per fare un favore alle insistenze del padre. Giordano era invece uno scapestrato ragazzotto invaghito dal mondo della nobiltade: amava soltanto le dame e le cortesie, amava le poesie, gli arazzi e i tessuti dorati; ma con la caccia, francamente, non aveva nulla a che fare. Ubaldo partì con i falchi verso il confine sud della tenuta, quello più alto di livello; Giordano andò con i cani nella direzione opposta, verso la valle. I due falchi di Ubaldo si diedero, come al solito, un gran da fare e catturarono, nell’arco dell’intera giornata, ben sei lepri, tre fagiani e due germani: un ottimo bottino. Così Ubaldo, spossato dalla noia del successo, si ritirò verso il Palazzo anzitempo e si addormentò nel salone affrescato, davanti al camino, in attesa dell’incauto fratello: dopo poco cadde in un sonno profondo, e sognò, sghignazzando fra sé e sé, i trofei della sua caccia preferita, quella al cervo del Monte Bastione, quella in compagnia del simpaticissimo Carletto Pepoli. Nel frattempo Giordano, ancora a mani vuote, si era impantanato non molto lontano dal Canalazzo. I cani lo avevano portato sulla pista di una volpe e, di tanto in tanto, si giravano rassegnati a guardarlo nei suoi movimenti impacciati, quasi per rimproverare quella sua vistosa imperizia. Anche i cani, a dire il vero, non ne potevano più di servire quello svampito: per tutto il giorno avevano portato un emerito incapace sulla pista succulenta della volpe. Sapevano bene che non avrebbero mai agguantato la preda con quel tardone di Giordano Campeggi! Eppure, spinti da non si sa quale fedeltà, essi insistettero e insistettero, fino a trascinare il ragazzo molto lontano dalla Torre. Era ormai basso il sole quando Giordano giunse vicino all’altra torre della valle, la cosiddetta Torre dei Cavalli. Ivi era stanziato in ferma temporanea un gran stuolo di cacciatori sotto il comando di un Bentivoglio, la celebre famiglia dei fuggiaschi. Giordano lo riconobbe e gli si fece incontro sorridente; il Bentivoglio lo accolse e gli chiese come era andata la caccia. A quel punto Giordano raccontò tutta la sua giornata e lasciò trapelare un senso d’invidia nei confronti del nobile fratello “Che chissà quali trofei...” e il Bentivoglio, lo ascoltava divertito per quella sua favella assai colta. Poi, alla fine, invece di deriderlo davanti a tutti, in segno di amicizia gli porse un gran sacco. Quel sacco era piena di anatre d’ogni sorta. “Rimarrà tra noi, vero?” chiese Giordano, e quello prontamente: “Non ti preoccupare ci penso io a tuo fratello”. Così, a notte fonda, quando Giordano si presentò alla Torre, il fratello Ubaldo rimase a bocca aperta. Ovviamente l’abile poeta nulla gli rivelò. Ma gli chiese di pagare il dazio dello sconfitto. E quello, indispettito, pagò. Ma quel cappuccio di cuoio lavorato con argento era per un falco che non possedeva e nemmeno desiderava. Voleva solo cavarsi lo sfizio di vincere qualcosa. Ed ecco perché il giorno del ritorno in città dimenticò quella posta fra i panni che coprivano le selle.
1641

Il groviglio di biscie


C’la mulinela lé masneva e masneva da piò ‘d zent’ann e la gente oramai, a forza di dire frasi tipo Andèn là ’d cò, sve ’a la mulinela usava quel nome “la mulinela” anche per riferirsi alla borgata circostante. Ormai lo si usava appunto come un toponimo, e si diceva: Anden a la Mulinela intendendo in una sola espressione tutto il gruppo di case che stavano ai lati del Canalazzo. In quel periodo il gestore del mulino, Corrado Andreolli, aveva alloggiato nella vecchia torre di guardia un servo sfaticato, un certo Marchino. Il servo doveva occuparsi della manutenzione delle pale e della macina, doveva accogliere i carri che portavano il frumento ed aiutare i contadini nel trasporto dei sacchi. E, ovviamente, doveva sorvegliare attentamente tutte le operazioni della mola. Ma Marchino pensava solo a bere vino di nascosto e se ne infischiava di seguire i comandi dell’Andreolli: la pulizia delle pale poi, non ne parliamo! Era il compito che più di tutti odiava, con quel viscidume e quelle bestiacce da levare! E così, dopo vari giorni di ubriacatura, la Vigilia di Natale successe il fatto memorabile. Marchino aveva sedotto, in quel gelido pomeriggio, Agnese, una giovane contadinella del podere adiacente. L’aveva fatta bere e poi l’aveva portata nella rimessa. Nel frattempo la ruota del mulino girava a vuoto, senza nessuno che la sorvegliasse. Dall’altra parte del Canalazzo c’erano i figli della Dora che giocavano, come tutti i pomeriggi, a fare i nodi con le corde di canapa: di solito Luchino li preparava e Giovannino cercava di scioglierli il più in fretta possibile. Ma per quel giorno Luchino aveva una sorpresa da rivelare al fratello, una grande trovata per stringere forte forte i suoi nodi: voleva andare a la mulinela che tant diceva a i’é’l Marchen; aveva intenzione di legare le sue corde al mozzo e alle pale, così che si prendessero una stretta memorabile. E così fece, senza troppo stupirsi dell’assenza di Marchino: a’l srà in tal magazen cô’na quai douna disse al fratello, anden pur! In un batter d’occhio avvenne l’irreparabile: un enorme gomitolo di corde bloccò le pale e scardinò l’intero mulino. Il rumore fu assordante: il meccanismo collassò su se stesso rovinosamente e molte parti di legno si ruppero. Luchino aveva legato proprio bene! Ma subito i due ragazzi capirono di averla fatta grossa cercarono un nascondiglio. Lo trovarono in fondo all’aia, dietro la ruota di un carro, e lì si fermarono per vedere la reazione del custode Marchino. Non avevano poi così tanta paura. Marchino giunse di corsa sul luogo e davanti a quel terribile scenario si mise le mani nei capelli gridando: azident a cal’ bessi! I m’an sfat tot al lavourir! E adess? Chissà, forse il poveretto, sotto i fumi dell’alcool e in preda ad istinti inenarrabili, vide galleggiare sull’acqua non un groviglio di corda, ma un affastellamento di biscie; o forse, questo non lo possiamo sapere, riconobbe benissimo la corda...Una sola cosa è certa: per giustificarsi con l’Andreolli, Marchino sostenne di aver raccolto centinaia di serpi acquatiche, e che quelle erano le vere responsabili dell’incidente, non certo lui! E quando Messer Andreolli gli disse: O Marchen, ’al bessi d’inveran in van brisa in zir! Ecco cosa rispose lui: Sgnour Andreolli, la sou’ bessa la starà a cà, mo la mì, d’inveran la va piò che mai! Il giorno di Natale, non si parlava d’altro. La gente sentiva il bisogno di ridere su storielle come questa per sdrammatizzare la gravosità delle liturgie latine: tutti ormai sapevano della prontezza di spirito con cui Marchen aveva risposto all’Andreolli. E tutti, secondo l’uso di Luchino e Giovannino, iniziarono a chiamare il palazzotto dove quella vecchia mulinela era andata in frantumi, al Palaz ròt dal bessi o più semplicemente al Palaz dal bessi.
1698

Il furto dei cavalli


La notte di Natale del 1698 al Palaz dal Bessi successe un fatto straordinario: i quattordici cavalli della stalla furono rubati da un gruppo organizzato di briganti. Fu una rapina in piena regola: il cielo era senza luna e la gente era tutta alla veglia della pieve. L’azione fu silenziosissima: non si sentivano nemmeno le crepe del gelo sotto il peso degli zoccoli. Per la proprietà fu un danno davvero ingente. Il Questore Bononiensis, discendente illustre dei Bentivoglio, era da tempo sulle tracce dei malviventi e aveva sguinzagliato le sue guardie per tutti i borghi della provincia in cerca di indizi. Il giorno di Santo Stefano, quando fu informato di quanto era accaduto presso la rinomata scuderia del Palaz dal Bessi, decise di recarsi immediatamente sul posto per analizzare la situazione. In realtà arrivò il giorno 27, ma si fece precedere dal seguente ordine: «Nessuno tocchi li materiali et il loco tutto». Così, quando giunse trovò la classica “scena del delitto” ancora intatta e poté ricostruire con calma le metodologie di scasso dei briganti, i loro piani, le loro movenze. Camminò per tutta la mattina sulla pista delle loro orme, che erano, fra l’altro, molto vistose; poi, ad un certo punto, si fermò e raccolse qualcosa. Era un ferro di cavallo. Decise di portarlo con sé. Seguendo le tracce il Questore giunse con le sue guardie sulle sponde del Po di Primaro. Uno degli investigatori che era con lui gli disse: I’ sran andé là d’là. Ma il Questore era perplesso. Possibile che avessero guadato in quel punto? Certo il ghiaccio c’era, ma poteva essersi rifatto nei due giorni che erano trascorsi dal passaggio della mandria. No! Disse il Questore, l’acqua l’è trop fonda e pò l’è trop preiglous! E allora? Beh, la risposta stava negli sguardi che si scambiarono vicendevolmente gli investigatori. Era chiaro: i furfanti erano andati lungo la riva, facendo camminare i cavalli in fila indiana con l’acqua appena sotto le cosce; e le orme non potevano essere viste perché il fiume aveva nascosto tutto sotto un nuovo spessore di ghiaccio. Il Questore rinunciò alla ricerca e ritornò al Palaz dal Bessi a mani vuote. Ancora una volta avevano vinto i cattivi. Il cavallaro Astolfo si fece incontro all’autorità cittadina sperando di sentire qualche buona novella... e invece quello, senza troppo curarsi di dare spiegazioni, gli fece cade re davanti ai piedi il ferro di cavallo che aveva raccolto. L’è qual c’l’avanza di cavai gli disse, e se ne andò. Il poveretto rimase tanto deluso che si inginocchiò sul ferro per piangere; e in quella posizione rimase per ore e ore, fino a quando non spuntò il primo spicchio della nuova luna. A quel punto si alzò, calciò via il ferro e si diresse verso la porta. Sapeva bene quale sarebbe stata la sua punizione...
1739

Il falsario Busciene


Al Palaz dal bessi abitò per un certo tempo Augusto Marescalchi, un tipo poco raccomandabile fuggito da Mantova, il quale per professione faceva l’incantatore di riccastri: era, per farla breve, un comune falsario. Di solito cercava di farsi vedere il meno possibile, ma la gente, si sa, ha più occhi della stessa verità; e tra loro gli abitanti d’la Mulinela, parlando sovente sottovoce, si riferivano a lui chiamandolo il Busciene e questo perché, ovviamente, lo vedevano sempre bazzicare nei pressi del Palazzo, e a quel luogo tutti lo associavano. E in effetti il terribile Marescalchi, o Busciene se volete, aveva impiantato nei sotterranei della torre una redazione clandestina nella quale non preparava carta valuta come avrebbe fatto un qualsiasi falsario, bensì lettere. Sì, avete capito benissimo, preparava soltanto delle lettere. E con esse si prendeva gioco di tutta la bigotteria che lo circondava non appena metteva piede in città. Facciamo un esempio. Diciamo che il Busciene scrivesse alla Brunetta dei Cremonesi, nobildonna lombarda famosissima, e si firmasse, che so io, Marchese di Recanati, o ancora di più, magari Granduca di Toscana, o addirittura Papa. L’importante era possedere i sigilli. Ma poi? Che se ne faceva di mentire per tutti i regni d’Italia? Dove voleva arrivare? In genere si accontentava di fingersi ambasciatore in missione segreta per conto di questo o di quest’altro adducendo le più incredibili motivazioni; sì, si accontentava di godere degli agi che gli erano offerti dai nobili, e a dirla tutta, si divertiva come un matto ad escogitarne sempre una nuova! Che soddisfazione gli dava la fantasia, e poi, l’imbroglio, che bello l’imbroglio dei riccastri! Pensate che una volta, per la Vigilia del Santo Natale, fece recapitare una richiesta al Teatro Regio di Parma fingendosi ambasciatore dello Zar! Scrisse in francese ed ordinò che una guardia armata lo accogliesse all’ingresso della città. Poi, ovviamente, non andò. Si era coricato sorridente nella sua fucina delle truffe e si trastullava all’idea che quattro scemotti girassero disperatamente per Parma in cerca di un russo che neanche esisteva! A lui bastava questa soddisfazione per vivere felice. E si addormentò sul suo nuovo progetto di inganno: la penna gli scivolò dalle mani, il calamaio si ribaltò e lui, il Busciene, precipitò in un sonno ricolmo di pensieri sgraditi: la sua amata correva e correva senza fine su un litorale nero, battuto da un mare in burrasca; poi cadeva e si rialzava, cadeva e si rialzava; era inseguita da un branco di cani, come fosse una volpe; e il litorale era infinito, infinito! E lei correva e correva, fino a quando non pestò un serpente e cadde per il morso con un urlo straziante In quel momento dunque il Busciene si svegliò e capì immediatamente chi stava bussando alla porta della Torre. Erano guardie armate di baionetta, alle quali si consegnò senza far storie. Quel sogno natalizio era stato premonitore.
1788

L'amore in chiesa


Si celebrava la Messa della Vigilia e alla pieve di San Martino la famiglia Zappaterra occupava, come al solito, l’ultimo banco di destra. C’era il padre, al centro, con i due figli maschi; sulle ali stavano le donne: la madre e le quattro figlie. La più grande di queste figlie, la Rosa, aveva accanto a sé anche il fidanzato Giuseppe. Questo Giuseppe era un tipo un po’ strano: iracondo, suscettibile e financo un po’ violento. Era di famiglia benestante, originario della Riccardina: là aveva lasciato i campi paterni per intraprendere un commercio di legnami con un amico di Bologna. E la sua fama di “cattivo” non aveva tardato a farsi largo fra tutte le genti della bassa. Evidentemente di questa fama nulla sapeva il terribile Pinotti, un ragazzotto di San Martino che lavorava la terra per i Casadei. Il Pinotti era nero di capelli e longilineo: un tipo sfacciato, di quelli che il pudore neanche sanno cos’è. Ebbene, alla Messa della Vigilia successe il fatto. Il Pinotti, impudente sfrontato, si girò a guardare insistentemente la bella Rosa durante tutta la celebrazione; lei, timida, abbassava sovente lo sguardo. Ma Giuseppe di Riccardina aveva notato tutto e dentro di sé ardeva di gelosia. Eppure, fino alla fine della Messa non successe nulla: Giuseppe sembrava calmo e tranquillo. Appena fuori però, sul piazzale della chiesa, si sentì un urlo di rabbia: era Giuseppe che strattonava ripetutamente il Pinotti. C’era da aspettarselo: lo tratteneva per la giacca e lo scuoteva come fosse un ulivo. Il Pinotti tergiversava, si guardava intorno, invitava la gente a testimoniare a suo favore; ma la gente, che volete, il giorno di Natale, aveva altro a cui pensare! Finalmente si poteva stare una mattina con la prole senza l’incombenza del lavoro nei campi: figuratevi se qualcuno aveva voglia di rovinarsi quel giorno magnifico ficcando il naso negli affari del manesco Giuseppe di Riccardina! Ebbene, dalla folla dei curiosi spuntò uno, con la barbetta scura che sembrava un moschettiere: era il fornaio di Vedrana, uno che se fosse nato a Roma millesettecento anni prima avrebbe certamente fatto l’attore tragico; lui, il fornaio, aveva la capacità di attirare su di sé tutte le attenzioni con la semplicità di alcuni gesti e con poche parole... Si fece dunque innanzi e mulinò le braccia verso il cielo; poi, quando tutti gli occhi degli astanti furono su di lui, ecco cosa disse: “Si faccia un duello! Soltanto la tenzone potrà dire chi ha torto o ragione! La folla, che prima sembrava timida e vogliosa di abbandonare quei due litiganti, a quel punto si infervorò e si mise a ruota del fornaio con questa eco: “Sì, si faccia il duello!! Si faccia il duello!!” Giuseppe di Riccardina gettò in terra i suoi guanti di borghese e guardò il contadino dal basso in alto. Lo spilungone, il Pinotti, tremava: in che guaio si era cacciato! E allora il fornaio incalzò: “Si farà il mattino di San Silvestro nel Prato Grande del Palazzo delle Biscie!” E il solito coro lo seguì: “Sì il mattino di San Silvestro!” Accadde così che all’ombra della torre, l’ultimo giorno del 1788, il Pinotti e Giuseppe di Riccardina si trovarono con aria di sfida. A dire il vero, provocatorio fu solo Giuseppe, ché l’ingenuo Pinotti, lo spilungone, avrebbe ben fatto a meno di misurarsi con la morte! Ma quello era un tempo in cui le parole gli sguardi e gli onori contavano più della giovane età e delle speranze. E così, spade alla mano, si fece secondo l’antica tradizione. Una lama d’improvviso si spezzò ed il braccio che la governava venne ferito gravemente. Cadde a terra, incredulo, proprio Giuseppe di Riccardina. Questi, mirando le lacrime di Rosa, urlò gagliardo: “Vai dunque col contadino!” E poi, rivolto all’inaspettato vincitore: “Tu, Pinotti maledetto, ora dammi la morte!” Ma il Pinotti era uno che si rifiutava di uccidere anche il maiale di novembre. E proprio questo disse all’incauto borghese.
1833

L'orologiaio


Di quei tempi a Molinela si stava creando l’abitudine di apparecchiare in fondo al Canalazzo un mercatino di vecchie chincaglie, soprattutto sotto Natale. Un’usanza che, con modi sempre diversi, si è protratta fino ai nostri giorni. Passato il Palazzo delle Biscie, proprio in corrispondenza del fosso di Barattino, c’era la tenda di un mercante straniero, uno che possedeva pezzi assolutamente mirabili, ben al di sopra delle possibilità dei comuni abitanti d’la Mulinela. A differenza delle altre bancarelle, sulle quali stavano in mostra cesti di vimini, pollami, vasellami e zappe, sui tendaggi dello straniero c’erano pezzi rari d’argento, quadri secenteschi e financo orologi da taschino. La gente andava in delirio alla vista di quei pezzi inarrivabili e lo straniero, seduto spesso sul suo sgabellino, fumava la pipa con compostezza mirabile; a lui interessava contemplare le fattezze del Palazzo delle Biscie: non sperava affatto di vendere ai plebei di Molinella quei suoi pezzi pregiati; no, a lui bastava far mostra di una ricchezza della quale non poteva godere. Era infatti un semipovero, se così si può dire, perché non aveva mai liquidità spendibile. Aveva solo quelle rarità ricevute come lascito da uno zio misterioso. E con quel patrimonio di oggetti era quasi più bello far finta di essere ricchi! Sì, piuttosto che smembrarlo per tirar su qualche giornata di agi veri. Tanto valeva vivere come un povero ma mostrarsi ricco: ecco perché lo straniero itinerante sceglieva i mercati più poveri per stanziarsi qualche giorno. A Mulinella aveva scelto di fermarsi all’ombra del Palazzo: la Torre lo aveva attirato subito, fin da quando l’aveva vista stagliarsi in lontananza, appena sopra il verde degli alberi che punteggiavano l’orizzonte. Aveva legato i cavalli, aveva smontato la roba che portava sul carro e aveva acceso subito due fuochi per scaldarsi. Poi, dopo aver preparato la mostra degli oggetti, si era seduto e aveva acceso la sua pipa di radica. Era l’ultimo scampolo di tabacco che gli restava. Per godersi fino in fondo quella fumata densa ed odorosa fissò con inusitata attenzione gli occhi sui coppi del Palazzo, e poi slittò lentamente su quelli della Casa Padronale, della vecchia stalla e, infine, del forno. Dietro la coltre di fumo violaceo iniziarono a prendere forma alcuni sogni. A quel visionario pareva di scorgere ben più di quel che c’era in realtà, molto più di quei pochi piccioni che saltellavano fra le stalattiti ghiacciate della gronda. Molto di più: lui vedeva quello che era stato. In una parola, lui vedeva la storia. E allora, mentre si immaginava la fuga trafelata dell’Ariosto, la carneficina dei mercenari veneti e l’intoppo del mulino, traeva dai banchi uno dei vecchi orologi: era un pezzo di scarsissimo valore meccanico, tant’è vero che aveva le lancette ferme. E ne fissava l’immoto quadrante, rifletteva, spipacchiava. Quindi vuotò le ultime braci. Spesso nella contemplazione del tempo raggiungeva la stasi imperturbabile del vero saggio. Improvvisamente fu interrotto da un signorotto distinto, ben vestito, con un cagnolino a passeggio, un bel cappello, una bella giacca. Quello era un potenziale cliente. “L’orologio che maneggiate è in vendita?” chiese con cortesia, e poi: “me lo potrebbe mostrare?” Lo straniero rimase interdetto. Mai si sarebbe aspettato una simile presenza a Molinella. Dunque, esitando un poco e non trovando alcun vocabolo italiano, allungò l’orologio al signore. Questi lo raccolse e confrontò l’orario con quello del suo apparecchio: miracolosamente c’erano solo due minuti di differenza. Dunque poteva andare... ma poi, avvicinandolo all’orecchio capì che qualcosa non funzionava: “Questo è fermo” disse “non s’ode nulla all’interno!” “Non...” rispose l’orologiaio “il n’est pas arrêté. Et en tout cas il n’est pas à vendre” poi, passando al suo confuso italiano chiese: “Signore chi è proprietario della vecchia torre?” Ed il cliente: “Sono io”. Quella sera il padrone del Palazzo rientrò nei suoi appartamenti con un orologio fermo. Un semplice dono da gettarsi nel Canalazzo.
1879

Il Bordello


Forse non tutti sanno che in alcune stanze del Palazzo delle Biscie tra il 1870 e il 1879 fu allestito un bordello. A gestire l’affare era un certo Camillo Allevi, un affarista budriese cacciato tacitamente dal suo paese natio per aver truffato alcuni clienti; ma nel vecchio Palazzo l’Allevi, non volendosi sporcare le mani direttamente, vi collocò una fidata donnona, una certa Silvietta. E la Silvietta aveva sotto di sé due ragazele scostumate, la Bruna e la Nadia. Bruna e Nadia erano molto amiche e facevano quel mestiere da quasi nove anni. Erano due donnette sui trentacinque. Le due avevano questo accordo: se capitava un uomo con più di sessant’anni era per la Bruna, tutti quelli più giovani erano invece per la Nadia; però la Bruna aveva diritto, visto il suo sacrificio, ai tre quarti dell’incasso. Tanto andava bene così a entrambe: la Nadia i tardoni maniaci non poteva proprio vederli, e poi non aveva così tanto bisogno di danaro. Per quanto riguarda la Bruna, beh, a lei forse non dispiacevano nemmeno gli uomini maturi. Il fatto che sto per narrare successe nel dicembre del 1879. Ecco, in sintesi, che cosa successe. Al Palazzo, in una sera di quell’inverno, si presentò un uomo di sessant’anni incredibilmente affascinante: ben curato, ricco, colto. Si chiamava Piero ed era di Castel San Pietro: fu indiscutibilmente l’uomo più intrigante che mai si fosse presentato ad un bordello di provincia. Che bisogni poteva avere un tipo come quello? Bruna e Nadia, quando lo videro, gli chiesero con impazienza: “Quanti anni ha il signore?” e lui: “Sessanta suonati!”. A quel punto le due sgualdrine si guardarono e ciascuna pensò la stessa cosa, ovvero “Questo tocca a me”. Era incredibile quanta dedizione potevano ancora mettere nel loro lavoro, dopo ben nove anni di sacrifici! No, quel Piero, che per la sua età cascava esattamente a metà dell’accordo, entrambe lo volevano! E poi era un ottimo pollo da spennare. Nacque così un piccolo diverbio che divertì non poco l’attempato cliente. “Voi, signorine care, mi lusingate troppo...” disse lui mettendosi in mezzo “...non c’è bisogno di tutti questi complimenti, tanto le tariffe sono scritte fuori dalla porta. Non sarà un espediente per chiedermi di più?” “No, no, Piero, state tranquillo...” fece la Nadia “...le tariffe sono fisse per tutti.” “Senti un po’ Nadia...” disse la Bruna “...perché non facciamo scegliere a lui quale delle due preferisce?” “Si, facciamo pure così...” rispose la collega “...è un’ottima idea” E allora Piero disse: “Per scegliere dovrò pur provare!” E così prese a sé la Bruna, ma promise a Nadia che sarebbe tornato anche da lei. E così fu: il giorno seguente andò con la Nadia. Poi tornò con la Bruna e poi ancora con la Nadia! Era proprio indeciso... E pagò sempre, da vero galantuomo, il doppio della tariffa. Infine, dopo vari giorni di alternanza, il 23 di dicembre, alle soglie del Natale, Piero si presentò al Palazzo delle Biscie col volto raggiante; e quando le ragazze gli si fecero incontro, lui, dopo un attimo di imbarazzo, disse: “Voi siete bellissime. Ed io sono molto ricco. E molto solo...” Poi alzò gli occhi verso la finestra che dava sul cortile e continuò: “Venite con me. Abbandonate il mestiere ed io vi pagherò tutto. Venite nella mia villa di Castel San Pietro!” Nadia e Bruna si guardarono senza trovare le giuste parole. Finché, dopo una lunga riflessione, una delle due chiese: “E la vostra eredità? Voglio dire, voi avete parecchi anni più di noi... ...mi capite vero?” Piero sghignazzò e rispose: “La mia eredità sarà tutta vostra, ma a due condizioni: che non mi uccidiate e che la più brava fra le lenzuola prenda i tre quarti. Io stesso scriverò tutto nel testamento” E fu così che Piero visse sempre felice; così che la Silvietta, trovatasi di punto in bianco senza le ragazze, gettò il prezzario dalla finestra; così che l’Allevi restò senza l’affare. Il giorno di Natale le tre stanze del Palazzo tornarono, dopo nove anni, ad uso della famiglia che seguiva il podere. E dove prima volavano leggere lenzuola, tornarono a posarsi mestamente le zappe e i ronchetti.
1901

I tortellini dei quattro poeti


Per le festività natalizie di quell’anno, Giuseppina Sarti e Ida Gini, rispettivamente madre e moglie del noto poeta Severino Ferrari, prepararono cento uova di tortellini. L’ordine era venuto dallo stesso Severino che, ormai malaticcio, desiderava invitare all’Alberino tre suoi amici carissimi e passare con loro, inarrivabili mangiatori, alcuni momenti di piacevole banchetto. Fra un piatto e l’altro, il grande Giosue Carducci mesceva il vino rosso piemontese che lui stesso aveva procurato; il facoltoso Guido Mazzoni, ridendo, scribacchiava de’ versi sciocchi e maneggiava una vecchia spilla che si era trovato in tasca; ed il pensoso Giovani Pascoli imboccava con delle briciole il piccolo canarino della Ida. La compagnia dei poeti era completata dalla figura gioiosa dell’umile Severino che si dava un gran da fare fra la cucina e la sala per servire in ugual misura gli eminenti convenuti: per Severino, l’esser riuscito a riunire quegli incliti verseggiatori sotto il suo tetto, fu una felicità vera. Quello era il suo gaudio supremo, quello il suo giubilo più intimo: stare ad ascoltare la folta barba bianca del vate toscano, suo eterno maestro, e da quella pendere in momenti di rara commozione! E poi seguire la simpatica lingua impastata di Guido, finissimo esperto della lirica! E infine perdersi con Giovannino nella contemplazione del cosmo che tutto rivive in una piccola ragnatela! Ma cosa poteva chiedere di più il buon Severino? Dopo ore di abbuffata, il Pascoli, ormai stanco di quell’aria chiusa propose: “Perché, amici, non imprimere le nostre orme sulla neve? Andiamo fuori: questo è il momento. Passeggiamo, viviamo” Senza che nessuno rispondesse, tutti si alzarono per cingersi il collo con la sciarpa e per indossare i cappotti. E quando furono là fuori, nel gelo pungente, Pascoli trasse a sé Severino e gli disse all’orecchio: “Severino, tu sai che v’è un loco, non molto lontano di qui, ove si dice soggiornò l’Ariosto” “Ho sentito questa diceria...” rispose Severino “...ma non la credo. Più volte ho visto quel Palazzo: è una vecchia torre dove i potatori accatastano gli arnesi, niente di più” “Cosa dite?” chiese curioso il Mazzoni “Ho capito bene? Qui soggiornò l’Ariosto?” E Carducci: “Signori, è risaputo che l’Ariosto viaggiò molto; ed in Firenze avendo una dama segreta, tale Alessandra Benucci, non è inverosimile che proprio qui, sulla via per Ferrara, egli si sia un giorno fermato”. Così, accendendosi una piccola discussione sulla possibilità che l’Ariosto avesse davvero soggiornato in quel Palazzo che ormai tutti chiamavano “delle Biscie”, i quattro poeti camminarono dall’Alberino fino a Molinella. Quando giunsero al cospetto della Torre, nessuno azzardò la prima parola: doveva essere Carducci a dare il suo giudizio. E così egli si pronunciò: “il fabbricato è certamente coevo all’Ariosto. Con ogni probabilità al suo tempo doveva essere un presidio militare” ma poi Mazzoni soggiunse: “maestro, mi par di notare anche i segni di un mulino... non vedete i puntelli sotto quella breccia?” Severino ascoltava in silenzio ed aspettava il verdetto del misurato Giovannino; il quale finalmente disse: “Che importa se l’Ariosto fu qui? Rendiamo grazie al presente, non insultiamolo mai: ché di tutti i tempi soltanto questo ci permette di guardare giù, come dall’alto di una torre, e di mirare tutti gli altri secoli” E, dopo quelle parole, i quattro voltarono le spalle al Palazzo delle Biscie per tornare all’Alberino. In segno di riverenza verso la maestosità dei tempi, Guido piantò la vecchia spilla che teneva in tasca su un muro. Un muro che aveva preso il posto di quello inciso dall’Ariosto.
1936

Le scritte fasciste


Qualche anno prima che i carrarmati di Hitler invadessero la Polonia, l’Italia viveva un periodo di traballante prosperità. Dipendeva molto dalle zone e dalle famiglie, certo, ma, in linea di massima, pochi ancora morivano di fame. Almeno nella nostra pianura, dove il lavoro dei campi iniziava ad essere ricompensato col pane e con qualche diritto, la gente sembrava proprio contenta dell’operato fascista. Anche il Palazzo delle Biscie fu contento della dittatura: dopo lunghi periodi di declino, era finalmente tirato a lucido. Infatti, come tutti sanno, la famiglia che lo abitò durante il ventennio ebbe l’ordine di ristrutturare i coperti e di tinteggiare tutte le pareti. Il padre della famigliola, un certo Alfredo, era uomo ligio al dovere e quasi succube del mito della Patria; un uomo altresì molto credente, e in genere ben disposto verso la comunità contadina che lo circondava. Dovete sapere che da alcuni giorni un terribile pensiero lo affliggeva; si chiedeva infatti: “Pusebil che me, Alfredo, fiero lavoratore italico, an son brisa bon ad der al mi contribut al nomm dal Duce?” Il meticoloso Alfredo, se non l’avete capito, voleva fare qualcosa per la propaganda del Regime. Ma non sapeva cosa... Fu allora che suo figlio Massimo, il maggiore dei sette maschi, ebbe un’idea grandiosa. “Perché padre...” chiese rivolgendosi ad Alfredo “...perché non scriviamo un motto in vett’al Palaz?” Ad Alfredo brillarono gli occhi: “Geniale, figliolo! È proprio vero che la prole assomiglia sempre di più al padre!” Questo Alfredo dunque, il dì 24 Dicembre del XIV anno dell’Era Fascista, volle fare al popolo italiano de’ campi il gran regalo: avrebbe acquistato la vernice con i suoi risparmi per scrivere... “Ma per scrivere cosa, babbo?” gli chiese puntualmente Michele, il secondo dei suoi figli “Beh...” rispose Alfredo indeciso “...an so brisa... ...a psèn fèr VIVA IL DUCE!” “Ma no babbo...” lo incalzò Michele, che era un gran saputello, “...mi pare, con tutto il rispetto per Mussolini, un po’ banale. Tutti scrivono quella frase!” “E allora?” “Ci vuole una frase complessa...” continuò Michele “...una frase che esprima lo spirito altisonante della Torre! Onna acsé: IN ALTO PER VEDERE PIU’ LONTANO” “Eccellente! Eccellente figliolo...” rispose tutto contento Alfredo “...davvero eccellente! Mo ’in dou et’imparé?” E il piccolo: “A scuola babbo, a scuola! Ci insegnano tante belle cose!” “Bravi ragazzi! A vag a tour la schèla”. Ma a quel punto Massimo lo fermò: “Babbo scusa, ma col frèd la varnìs l’an va brisa bèn... Ti ricordi quando abbiamo tinteggiato la staccionata?” “Inezie, figliolo, inezie...” tuonò il padre “...queste sono solo, come dice bene il Duce, inezie da sfaticati. L’avlèn fèr o no? L’è par la comunitè! Va mo te a tour la schèla!” E così i tre uomini, anzi, l’uomo con i due ometti ai piedi della scala, iniziarono l’opera. In meno di un’ora Alfredo aveva già preparato una bellissima cornice rossa dentro la quale scrivere il motto. Poi iniziò con le sei parole. Quelle sei semplicissime parole che così, una vicino all’altra, gli davano una gioia indicibile. Purtroppo però, quando giunse alla L di LONTANO, si accorse che a fatica quell’ultima parola sarebbe stata contenuta dalla cornice. Allora interpellò il figlio: “Michele a’in stà brisa!!” e Michele lo rimproverò: “Babbo dovevamo farla dopo la cournìs!” “E adess?” chiese il padre rivolto verso Dio “E adess?” L’idea venne a Massimo: “Babbo, chiudi la L e falla diventare una O. Pò dòp a scrivenn OLTRE invezzi che LONTANO!” “Cio ragazù, vu etar av’si di inteletuèl!” disse tutto felice Alfredo mentre riprendeva in mano il pennello, “...av’ si di inteletuel!” Ed ecco perché la O del motto fascista, visibile ancora alle soglie del III millennio, si presentava quadrata e non rotonda.
2007

Le buche di Olga


L’attuale proprietario, Sergio Frascari, ha messo due grosse cagne a far da guardia al Palazzo delle Biscie: si chiamano Mila e Olga, e sono due sorelle. Mila è la più magra, Olga la più grassa. Queste cagnone hanno la brutta abitudine di scavare delle profonde buche nel parco: così che lo splendido giardino il più delle volte pare proprio un simpatico groviera di terriccio.
Io credo che le cagnone scavino per tre motivi fondamentali. Primo: per cercare frescura o riparo; secondo: per nascondere cibo o ossa; terzo: per fare un dispetto a Renzo Pastorello, l’attuale giardiniere. Nelle loro trivellazioni del terreno le cagnone rinvengono spesso delle cose un po’ particolari, come vecchi cappelli che non si trovavano da anni, o come sandali di Filippo, un bimbo un po’ distratto.
Fra mille disastri però, per tre volte Olga ha dissotterrato oggetti piuttosto interessanti. Il primo è un pezzo di metallo terribilmente arrugginito e piegato da chi sa quale forza naturale; il secondo è un ferro di cavallo; il terzo è un bellissimo sigillo di ottone con uno stemma nobiliare. Tutti oggetti che stimolano la curiosità di noi ricercatori.
Questi reperti il proprietario ha conservato ed aggiunto ad una lunga serie di rozzi cimeli riaffiorati dalle ristrutturazioni e dalle demolizioni: c’è un pezzetto di una vecchia spada, un pezzetto di cuoio con argento, un orologio da taschino completamente andato e ricolmo di terra, un brandello di uno strano tariffario, un’orribile spilla tipo art-ad-chissà-quand, un pennello dell’anteguerra, un piattino sbeccato di un servizio che non è neanche più di moda, e tante altre chincaglie.
La morale di tutte queste storie è manifesta. Non dobbiamo sbalordirci soltanto di fronte ai colossi che il tempo ci ha traghettato indenni: alle volte in un frammento c’è molta più storia da raccontare. E il Palazzo delle Biscie conserva un librone di aneddoti che è quasi infinito.
E dunque, passeggiando al Palazzo, non sgranerete gli occhi soltanto vedendo il discusso anello d’oro cinquecentesco con incise le lettere A. B., o soltanto passandovi tra le dita la moneta della Serenissima; no, dovrete respirare la storia che ogni singola pietra vi racconta, gli amori che ogni trave ha visto passare, le morti e i malanni che sono sfilati sotto quei coppi.
2014

L'atelier


Oggi il Palazzo delle Biscie è un atelier di pittura.
Vive d’arte e di incontri magici.